Quando si parla di aristocrazia potrebbero
venire in mente colletti bianchi, abiti sfarzosi, capigliature sontuose e
balletti noiosi dentro un castello. Non è questa l’aristocrazia che si
vuole intendere.
Dal greco ἀρετή
gli aristocratici erano considerati “i migliori” o, con un’altra
accezione del termine, i più “idonei”. Ciò presuppone un termine di
paragone e pone la domanda in base a che cosa o a chi fossero i
migliori. Nella Antica Grecia gli aristocratici erano coloro che
possedevano una particolare virtù o delle qualità che permettessero di
operare azioni per qualcosa di buono e valido per la collettività.
Astraendo l’aristocratico è colui che celebra e si meraviglia
dell’eternità delle cose, è in equilibrio tra il dominare e
l’appartenere al tutto, e ha una forma di santa devozione verso la
verità, intesa come passione critica tesa verso la massima
manifestazione della concordanza tra tutti gli essenti. In una sola inferenza, l’aristocratico, il migliore, è chi non sa solo vivere, ma sa essere vita.
La verace virtù, che vuole quindi essere
l’aristocrazia dell’animo, è insita al processo stesso con cui la vita
si pone verso l’essere e che si rende sempre più apparente grazie
all’esperienza, catalizzata e trasmessa per mezzo
dell’insegnamento. L’educazione è infatti quella prassi che l’uomo ha
sempre intrapreso per spostare delle conoscenze da una generazione
all’altra, in modo tale da moltiplicare sempre nuove esperienze, anche
senza contrarle direttamente, e contribuire allo sviluppo di una vita
migliore. Si nota come i concetti di “vita” e “migliore” siano
strettamente legati all’educazione, poiché per avere una vita migliore
bisogna necessariamente essere educati alla stessa. Il sapere dell’educazione – paidéia o filosofia dell’educazione – è appunto l’insieme di tutte le conoscenze atte alla fioritura dell’individuo, preparandolo all’ideale di verità nel progetto di umanizzazione sociale.
Questo lavoro è oggi conferito a maestri e maestre,
professori e professoresse, che non si vedono più rispecchiare nel
compito di “educatori alla vita”, ma semplici fruitori di conoscenze
proprie nell’epistemologia della materia che trattano. La società non
conferisce a loro il compito di “preparare alla vita” e neanche ricevono
questo incarico dalla famiglia degli allievi, infatti i genitori sono
spesso restii a demandare l’educazione dei propri figli ad un semplice
professore. Non è del rapporto famiglia professori che si vuole parlare,
ma di cosa significa in realtà insegnare matematica, scienze, fisica,
inglese o qualsiasi altra materia, vista come narrazione di una parte
del reale. L’educazione è il compito degli insegnati e non è cambiato
dall’antichità: hanno sempre l’onore e l’onere di preparare alla vita, attraverso – non “sostituendosi a” – le materie del proprio insegnamento.
Sì, i professori hanno il mandato sociale di educare alla vita, per
mezzo dei paradigmi propri della materia che trattano e che
costituiranno gli strumenti di comprensione e valore dell’eterno vivere
per i futuri uomini sociali.
È proprio qui
che si pone il primo problematicismo della pedagogia, dimenticato con
l’insegnamento di massa che caratterizza i nostri giorni, avallato solo
da conoscenze nozionistiche e citazionalogia. Urge riprendersi questa
responsabilità per essere nuovamente credibili agli occhi di chi ha
demandato la missione dell’educazione, ovvero essere all’altezza del
compito. Ciò significa aver prima acquisito il saper vivere, accettato i
suoi compromessi e la sua potenza, la libertà e il rispetto che
comporta l’esistenza nel mondo, aver dimostrato quindi di essere “tra i
migliori”, aristocratici appunto.
Ogni materia che ci si appresta ad insegnare è
parte del comune vivere e la pedagogia, che soggiace e si sviluppa
attraverso essa, non può non tenere conto della virtù intrinseca che
necessita per poterla insegnare. I professori devono prima
avere dimostrato di essere aristocratici, di sapere ed essere vita
stessa: solo così possono preparare a questo compito intere generazioni
di futuri uomini e donne.
L’aristocrazia e la nobiltà d’animo sono la conditio sine qua non
per poter esercitare la professione più antica del mondo.
Dimenticarsene significa offrire agli studenti una comprensione della
realtà influenzata dal vizio del falso essenzialismo, il quale non
permette lo sviluppo di una popolazione che rifletta sulle conseguenze e
sulla virtù delle proprie opere, annebbiate da un sapere che non sa
interpretare l’alterità e per questo risponde con nevrosi, violenza o
sottomissione intellettuale.
Per insegnare è necessario essere tra i migliori.
Matteo Gazzitano